Villa San Prospero

Faenza / Ripercorriamo le tappe chiave della seconda guerra mondiale a Faenza.

Villa San Prospero

La Villa, sorta a metà del XIX secolo su una costruzione preesistente[1], è essenzialmente nota ai faentini negli anni di guerra per due motivi: la distruzione della torre costruita a fine ‘800 e il suo utilizzo come base operativa da parte della Brigata Nera faentina, guidata da

Raffaeli. Da qui partono tutte le scorribande dei fascisti e qui vengono torturati vari faentini che si pensano più o meno vicini alla Resistenza.

Il periodo nero.

La Villa venne occupata prima dai fascisti, poi anche dai nazisti. A raccontare questa convivenza è Linda Bubani Guarini:

«Mio marito acquistò S. Prospero nel 1935. Era un posto tranquillo e circondato da alti alberi, che più tardi gli Inglesi abbatterono per utilizzare il legname.

I fascisti vennero solo nel maggio del ‘44 e noi ci riducemmo al pianterreno. Raffaele Raffaeli vi si trasferì in pianta stabile con sua moglie e da Palazzo Laderchi (fino a quel momento sede della casa del Fascio[1]) vi furono trasportati tutti gli archivi della Milizia nella sala grande del primo piano.

Quando anche il Comando tedesco volle trasferirsi qui, il comandante tedesco, dicendo che non era “cosa buona”, tolse di mezzo l’archivio e lo fece buttare all’aria nella serra. Al suo ritorno Raffaeli era furibondo [...][2]».

Don Agostino Francesconi specifica, nel suo diario, in un appunto datato sabato 13 maggio 1944, che lo spostamento fu determinato dal secondo grande bombardamento sulla città:

«[…] Dopo questo bombardamento la città si svuota. Anche il comando tedesco e quello fascista sfollano nella Villa di S. Prospero che si trova all’imbocco della strada per Castel Raniero[3]».

A testimoniare la fine della permanenza fascista nella villa sono poche righe del diario di  Collina Graziani, che, in data 26 ottobre 1944, scrive:

«[…] Si dice che nella notte sia partito il residuo gruppo di fascisti allogato nella villa San Prospero[4]».

Se le date sono corrette, in 166 giorni, Raffaeli e i suoi uomini, riuscirono a macchiarsi di numerose atrocità. Durante quei mesi la figura chiave del fascismo faentino fu Raffele Raffaeli.

Nato a Faenza nel maggio del 1922, ex maestro elementare, diventa capo del movimento fascista faentino alla fine dell’ottobre 1943. A 21 anni diventa la persona più importante della città manfreda, dopo il comando germanico e il capo provincia.

Numerosi sono i crimini che gli verranno imputati, tra questi vi sono l’organizzazione e la partecipazione a numerose stragi avvenute nel territorio faentino (tra cui quelle di Rivalta, Ponte Felisio e Pergola)[1].

La paura

Tra le tante testimonianze riferite a quel periodo proponiamo quella di Don Scolastico Berardi:

«Poi, tanti uomini portati via, che avevano passato la notte rinchiusi nella chiesa di Celle, erano poi stati trasferiti a villa S. Prospero, sede del comando repubblichino.

Ci vado in bicicletta. E subito, davanti all’entrata, uno spettacolo pietoso di donne disperate, che piangono, che supplicano nel vuoto. Una, quasi impazzita. Qualcuno aveva detto loro che i loro uomini sarebbero stati fucilati.

Appena mi vedono, mi si stringono addosso e mi supplicano con speranza. Ma che posso fare?

Cerco di parlare con l’uno e con l’altro dei soldati e vengo a sapere che quegli uomini venivano processati, perché accusati di aver favorito i partigiani. Una spia tedesca, fattasi prendere dai partigiani, aveva notato tutto e tutte le case, dove imprudentemente l’avevano portata. Poi, abilmente, era loro sfuggita e, sulle sue indicazioni, era poi stata organizzata la rappresaglia.

Ma dicono che otto uomini sono già stati condannati a morte e sono ora chiusi in un casone, nell’aia del contadino, che mi viene indicato. Più tardi il processo viene sospeso, perché si trova non tutto attendibile ciò che il soldato-spia stava riferendo[1]».

 

Ricerche a cura di Albergi Filippo, Folli Andrea, Ghetti Lorenzo, Gieri Lorenzo, Pezzi Andrea e Piazza Anna.

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[1]Si rimanda a Franco Bertoni e Marcella Vitali (a cura di), L’età neoclassica a Faenza - Le ville, Danilo Montanari Editore, Ravenna 2019, p. 166.

[2]https://www.manfrediana.it/museo-risorgimento-eta-contemporanea/

[3]La testimonianza di Linda Bubani Guarino è reperibile in Veniero Casadio Strozzi, Faenza anno zero. Dalla caduta del fascismo alla Liberazione, Ragazzini, Faenza 1982 (I edizione), p. 200.

[4]Eleonoro Dalmonte (a cura di), Faenza nella guerra e nella ricostruzione 1940-1945. Gli anni più turbinosi della sua storia millenaria, dal diario di Agostino Francesconi, Offset Ragazzini, Faenza 1990, p.57.

[5]Giovanni Collina Graziani, Faenza nel baratro. 8 settembre 1943 - 29 giugno 1945, Tipografia Faentina, Faenza 1989, p. 54.

[6]La più aggiornata opera sulla vita del gerarca faentino è Massimo Solaroli, Raffaele Raffaeli. Le due vite del gerarca faentino, La Mandragora, Imola 2022. Il documento forse più incisivo per riassumere il suo operato resta la sentenza della Corte d’Assise Speciale di Ravenna datata 14 gennaio 1947, sentenza n. 190 reg. sent., n222/46 RG (si ringrazia Marco Serena per la cortese segnalazione).

[7]Don Scolastico Berardi, Giorni di guerra a Pergola, p. 40-42 in Giuliano Bettoli et al. (a cura di), Faenza 1944. Quei giorni di fuoco e di morte. Diari e testimonianze, Tipografia faentina editrice, Faenza 2015.


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