«10 ottobre, martedì: Pochi giorni fa, in località Pergola, alcune case coloniche sono state incendiate perché avrebbero ospitato dei “ribelli”. Si sono avute delle persone uccise[1]».
Un episodio complesso. Il racconto processuale
Sulla strage di civili avvenuta il 6 ottobre 1944 abbiamo diverse fonti, discordanti tra loro. Durante il processo a Raffaeli, questi fatti vennero così riassunti:
«Il 6 ottobre 1944 fu effettuato un rastrellamento nelle zone di Pergola, Celle, Pideura e Tebano in collegamento con le truppe tedesche. La brigata nera era comandata dal Raffaeli.Furono catturate molte persone, incendiate e saccheggiate molte case.
Dai tedeschi furono assassinati quattro coloni: Gaddoni Pietro, i fratelli Alboni Lorenzo e Luigi e Santandrea Alfonso e vennero incendiati i fabbricati dove abitavano. Schiumarini Francesco, Guardigli Fernanda, Gaddoni Francesco (dalla cui casa furono asportate 7000 lire e vari oggetti e fu incendiata la casa ed i pagliai), Gaddoni Maria (nella cui casa i militi gozzovigliarono sino a sera e da ultimo fucilarono il marito a cinquanta metri dall’abitazione) hanno testimoniato in ordine alle nefande gesta compiute in detta circostanza.
Furono incendiate le case dei Cavina, i pagliai di Ceroni Pietro di Tebano, la casa, i pagliai ed un capannone di Fabbri Emilio (teste Dapporto Anna) previa asportazione di oggetti vari, di grassi e uova. I tedeschi impiccarono sette persone come ha riferito Tomi Natalino tra cui un cugino di Raffaeli. Allora costui fece catturare tre persone che i tedeschi si affrettarono ad uccidere[1]».
Questo documento ufficiale si rivela però lacunoso nelle motivazioni e inaffidabile.
Un episodio complesso. La ricostruzione storiografica
Enrica Cavina, nel suo studio sulla strage[1], racconta che vi fu una quinta vittima, Alpi Maria, uccisa dal rogo della propria casa. Per la studiosa la motivazione del rastrellamento va ricercata
«Nel tentativo di trovare un tedesco catturato dai partigiani e nascosto nel territorio della parrocchia di Tebano, comprendente le località di Pergola, Celle, Pideura[2]».
Prima di lei anche Veniero Casadio Strozzi aveva raccontato I fatti di Pergola, motivando questa strage come frutto della delazione di una spia tedesca[3].
Angelo Emiliani, inserisce tra le vittime, anche Maria Piazza, un’anziana donna che muore sotto la sua casa incendiata dai tedeschi[4].
Un episodio complesso. Il racconto del partigiano Cow Boy
Per capire le motivazioni di quella violenza bisogna partire dall’avanzata partigiana verso la zona di Pideura che aveva lo scopo di liberare la città.
È il partigiano Ettore Calderoni, nome di battaglia Cow Boy, che ci aiuta a comprendere quello che successe prima del rastrellamento, con l’avvicinamento dei partigiani verso Pideura:
«Passiamo Cavina, Rontana, Montecchio all’alba siamo alla Pideura a meno di due ore da Faenza.
Noi della VI compagnia prendiamo sede alla Possessione [podere situato all’incrocio tra vie Pideura e via Pergola] mentre le altre cinque compagnie del battaglione occupano le case circostanti e, mentre si stanno preparando i piani per l’ultimo attacco, osserviamo le mosse delle armate alleate.
L’attesa si prolunga. L’offensiva Anglo-Americana, che procedeva quasi senza ostacoli, lentamente si affievolisce, fermandosi poi definitivamente senza alcuna ragione. Da ciò emerge l’attuale tattica criminale degli stati imperialistici che consiste nel mandare allo sbaraglio i soldati del popolo e sbarazzarsene prima del loro arrivo, ma il trucco non funziona, perché noi abbiamo l’esperienza delle brigate Toscane fatta massacrare nella presa di Firenze, e senza muoverci, aspettiamo gli eventi.
Già il primo giorno del nostro arrivo alla Pideura, la diminuita pressione del fronte alleato permette ai Tedeschi di rivolgere la loro attenzione su di noi e si ha la notizia di spostamenti di truppe corazzate convergenti verso la nostra zona [...].
Il giorno seguente, dopo una notte di tensione e di allarmi trascorsa colle armi in pugno, i Tedeschi coi carri armati chiudono la trappola sulla Pideura, ma picchiano a vuoto e, non avendo il coraggio di avvicinarsi alle nostre posizioni, per vendetta fucilano alcuni antifascisti e incendiano diverse case di contadini[1]».
Un episodio complesso. Il diario di Don Scolastico Berardi.
La visione di Calderoni, fortemente ideologica, è in netto contrasto con quella, altrettanto di parte, di Don Scolastico Berardi:
«I partigiani, discesi nei giorni passati dai monti, con l’illusione di “liberarci dai tedeschi”, sono scappati, lasciandoci soli a subire le conseguenze della loro “illusione”.
Sono sul sagrato della Chiesa e mi vedo venire incontro i due fratelli Alboni, Lorenzo e Luigi, coloni della casa i Muré. Sono preoccupati. Mi raccontano di due tedeschi uccisi dai partigiani senza ragione – erano andati a comperare uova in una casa e ne stavano uscendo – e sepolti nel campo verso il fondovalle del Monte Coralli. Adesso i partigiani sono spariti e vi è tanta paura in giro. Si teme una rappresaglia. Molti uomini sono già fuggiti da casa per nascondersi, e così faranno anche loro […].
Il mattino seguente, coi miei e gli sfollati che avevo in canonica, notiamo un certo movimento giù nella valle, rumore di mezzi vari, camions, motori, camionette e voci.
Arriva di corsa il contadino di casa Lama, Serafino Tarozzi, che mi dice che come nella sua aia vi siano tanti uomini, rastrellati dai fascisti e dai tedeschi, fra gli altri un seminarista. Scendo con lui e vedo tutti questi uomini terrorizzati e il seminarista. Comanda il campo improvvisato un graduato tedesco, anziano, al quale faccio notare che quel seminarista – aveva la veste – così giovane, non poteva essere un partigiano. Scuote la testa ma poi lo rilascia. Non ne saprò più niente di lui.
Anche un mio parrocchiano, di casa Carapìa – i più di quegli uomini erano di Tebano, Casale e Celle – mi si raccomanda perché interceda anche per lui.
Dal tedesco non ottengo nulla, anzi, mi indica che il comando si trova a casa Galôt, poco distante.
Ci vado, e vedo nell’aia un gruppo di ufficiali tedeschi e fascisti che stanno discutendo su carte che hanno in mano: probabilmente il piano della rappresaglia da sviluppare.
Quando mi vedono, si chiudono in cerchio, voltandomi le spalle per non ascoltare. Mi viene incontro, invece, un soldato, non so se graduato, il quale parla l’italiano, e funge da interprete coi fascisti. Lui mi dice: “Guardi che è inutile parlare coi comandanti. La zona è accusata di essere favorevole ai partigiani”. Mi indica alcune case sul Monte Coralli e mi dice che quelle famiglie avevano accolto “con grato animo” i partigiani e prima di sera sarebbero state tutte bruciate. Poi mi dice, come in confidenza: “Come cattolico, l’avverto che anche i preti sono considerati partigiani. Lei è meglio che ritorni a casa”.
In quel momento mi si avvicina anche un altro soldato tedesco che, a gesti, mi traccia la sagoma di un prete di una parrocchia vicina, più in alto. Capisco che intende alludere a don Lanzoni, parroco di Montecchio, “amico dei partigiani”. Saprò poi, che era già stato preso, portato a S. Prospero, sede dei repubblichini, in seguito fucilato a S. Giovanni in Monte, a Bologna […].
Il mattino dopo, presto, mentre sto preparandomi in sacrestia per la Messa, sentiamo delle grida giù, al crocevia del fondo valle. Mio padre e mio cognato corrono giù, e subito dopo li seguo. Su uno spiazzo erboso vi sono quattro corpi: i due fratelli Lorenzo e Luigi Alboni (case Muré), Anselmo Santandrea (casa Scaranò), Pietro Gaddoni (Ca di Rèz). Accanto a loro, c’è il figlio di uno di essi, Urbano, che piange disperato.
[…] Intanto imparo che il bagliore di fuoco della sera prima veniva, non dalle case, ma dai fienili e dai servizi incendiati. Una casa minata. E una donna ignara di questo – Maria Piazza – che nel tentativo di andare a salvare qualche cosa, aveva inciampato in una mina che l’aveva uccisa[1]».
Il rimpianto
Difficile capire come si sono realmente svolti i fatti. Le fonti sono contrastanti tra loro e quelle ufficiali paiono meno attendibili delle ricostruzioni fatte ad anni di distanza, in un clima culturalmente diverso, dagli stessi protagonisti.
Per i partigiani faentini resta sicuramente il rimpianto di quella “mancata” liberazione del territorio faentino se anche Sesto Liverani scrisse:
«A Faenza dovevamo scendere due mesi prima, dalla Pideura, combattendo; invece siamo usciti dal sottosuolo, come talpe. Rientro nel nostro sotterraneo, siedo sul mio giaciglio e mi trovo solo, con una gran voglia di piangere. Le vicende degli ultimi mesi mi tornano rapide alla mente. Sento che si è chiusa una parte importante della mia vita. Getto l’arma in un angolo, poi corro al paese ad abbracciare mio padre[1]».
Il racconto del piccolo Sergio Gaddoni
Sergio Gaddoni, all’epoca dei fatti, era un bambino di sette anni. Il suo ricordo del “fatto” è stato registrato da Veniero Casadio Strozzi:
«Quando successe il fatto avevo sette anni. Io ricordo che nella nostra casa, il “fondo Ricci”, si fermavano normalmente dei tedeschi, che però quel giorno ci dissero di stare chiusi in casa, che a noi non sarebbe successo niente.
Qualche volta erano passati anche i partigiani, ma per nostra fortuna non si erano mai incontrati.
Quella sera, erano le sette circa, pensavamo che fosse finita la rappresaglia (le case vicine erano state fatte saltare), così mio cugino Amerigo uscì per dare da bere alle bestie, ma i tedeschi che stavano rientrando mezzo ubriachi lo videro e lo presero. Allora lo zio Pietro corse fuori da lui, ma fu catturato a sua volta.
Poco più tardi sentimmo degli spari dalla collina di fronte.
Alla mattina dopo andammo a cercarli. Noi bambini correvamo davanti e fui io il primo a scorgere i corpi che erano poco sotto la strada.
Mio zio era stato colpito da una raffica e aveva un foro di proiettile alla tempia…[1]».
Ricerche a cura di Albergi Filippo, Folli Andrea, Ghetti Lorenzo, Gieri Lorenzo, Pezzi Andrea e Piazza Anna.
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[1]Carlo Plazzi, Faenza tra due fuochi. 1944-1945. Pagine di diario, Stampa Offset Ragazzini, Faenza 1990, p. 26.
[2] Sentenza della Corte d’Assise Speciale di Ravenna 14 gennaio 1947 cit.
[3]Si rimanda a https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=4548 . La scheda contiene anche riferimenti all’esito processuale della vicenda.
[4]Eadem
[5]Veniero Casadio Strozzi, Faenza anno zero. Dalla caduta del fascismo alla Liberazione, Ragazzini, Faenza 1982 (I edizione), pp. 113 - 118.
[6]Angelo Emiliani, Storia del PCI di Faenza (1919 - 1944), Polaris, Faenza 2022, p. 245.
[7]Ettore Calderoni (Cow Boy), Qualcuno per raccontare il fatto, Galeati, Imola 1976, pp. 112 - 115.
[8]Don Scolastico Berardi, Giorni di guerra a Pergola, pp. 35-40 in Giuliano Bettoli et al. (a cura di), Faenza 1944. Quei giorni di fuoco e di morte. Diari e testimonianze, Tipografia faentina editrice, Faenza 2015.
[9]Sesto Liverani, Un anno di guerriglia, La Pietra, Milano 1971, p. 221.
[10]La testimonianza di Sergio Gaddoni è reperibile in Veniero Casadio Strozzi, Faenza anno zero. Dalla caduta del fascismo alla Liberazione, Ragazzini, Faenza 1982 (I edizione), p. 181.