A Castel Raniero sorge una colonia che, durante la guerra viene utilizzata come ospedale. Al centro dei combattimenti per diversi giorni; gli inglesi ne prendono il controllo al termine degli scontri: il 13 di dicembre del 1944, l’ospedale verrà fatto sgomberare. Durante i giorni della battaglia di Faenza furono numerose le vittime che morirono dentro l’edificio.
Costretti al trasloco
Collina Graziani racconta le motivazioni che spinsero gli amministratori a spostare la sede dell’ospedale civile da Faenza verso le prime colline:
4 luglio 1944:
«Le incursioni di questi giorni hanno danneggiato l’Ospedale, per quanto rimaste indenni le sue strutture murali […]. È stato giudicato inservibile e pertanto funzionerà in sua vece l’Ospizio Montanaro e come pronte soccorso o astanteria sarà attrezzata la scuola di Errano tra le bocche dei canali e la cartiera[1]».
Già il 22 novembre:
«[…] L’Ospedale, sfollato nell’Ospizio Montano, trabocca di feriti provenienti da tutte le parrocchie[2]»
Tra due fuochi
Quando il fronte si avvicina all’ospedale la situazione diventa via via più drammatica. Ancora Collina Graziani:
5 dicembre
«[…] Castel Raniero con l’ospedale è terra di nessuno[1]».
6 dicembre:
«Truppe inglesi hanno occupato posizioni di Castel Raniero[2]».
7 dicembre:
«Consolidamento dei tedeschi ad ovest di Faenza. Notizie raccapriccianti dall’ospedale di Castel Raniero: oltre ai feriti per scoppi di granate inglesi sulla collina a sinistra del Lamone, molti rifugiati. Si contano più di mille persone dove la capienza massima è di duecentocinquanta. Ciò avviene, oltre che per trovare rifugio in un luogo meno pericoloso, anche per mancanza di viveri.
Quindi, malati o no, una fetta di pane e un frutto al giorno. Deficienza anche di acqua, prima attinta da una cisterna con motore elettrico, ora con secchi a mano, fuoco di artiglieria permettendo. Le vetrate sono quasi tutte infrante, insufficienza di letti e coperte, latrine senza acqua. Lezzo e sudiciume, in tutti gli ambienti, dai corridoi alle inferriate.
Medicazioni, cure e operazioni limitate all’indispensabile, e il prof. Lesi fa valorosamente del suo meglio insieme con il primario medico prof. Civallieri, gli assistenti, le suore, i pochi infermieri rimasti.
La disastrosa situazione è però migliorata da ieri, quando gl’inglesi hanno occupato la posizione di Castel Raniero, sfollamento dei rifugiati sani e dei feriti leggeri. Altri vuoti per la morte di alcuni vecchi e bambini per inanizione (fame e freddo)[1]».
13 dicembre: «[…] L’ospedale di Castel Raniero viene fatto sgombrare dagli inglesi. Molti morti in questi giorni[2]».
Toni ancora più preoccupati si ritrovano nel Diario di Michelina Pasini:
Mercoledì, 13 dicembre :
«[…] Si dice che a Faenza, ci sia stato ritorno dei tedeschi, un contrattacco nella notte […]. A Castel Raniero invece, nel suo ospedale, vi è stato il finimondo e nelle ore pomeridiane, sono venuti, in condizioni pietose, i Medici, gli Inservienti, le Suore e gli ammalati, fuggiti di là. È venuta la contessa Zauli Bracchini colla figlia, raccontando cose tristi[1]».
L'organizzazione dell'Ospedale
Arturo Frontali racconta come era organizzato l’Ospedale durante il passaggio del fronte:
«A Castel Raniero, l'ospedale, nei primi mesi, funzionava egregiamente. Nello scantinato la cucina, la dispensa, il laboratorio e la sala mortuaria. al piano rialzato, subito a destra l'ufficio a sinistra dell'entrata la farmacia e la radiologia del Dott. Volturno Utili (1874-1953. Medaglia d’oro al valore della Sanità Pubblica). Allo stesso piano rialzato la Medicina del Prof. Italo Civalleri (1885 - 1948) e del Dott. Roberto Gualdrini (1914-1959) che dirigeva il Laboratorio d’Analisi.
Saltuariamente frequentava un giovane laureando Roberto Sabbatani (1920-1988). Al secondo piano la chirurgia e una sala operatoria ottimamente illuminata, ampie sale di degenza con una capacità di circa 100 posti letto.
Dai registri in entrata e uscita degli ammalati del ‘44, risulta che nei sei mesi, dai primi di giugno agli ultimi giorni di novembre, ci furono 1006 ricoveri, per il 90% nel reparto di chirurgia. Un numero considerevole se si pensa al numero dei ricoverati di un anno nei due reparti di chirurgia dell'OC [ospedale civile] di Faenza: circa 2500.
[...] Poi gli infermieri e i tecnici: [...] Clara Sangiorgi in laboratorio con Francesco Dari che, rimasto col Dott. Gualdrini, dopo il 13 dicembre, fu gravemente ferito da una scheggia di Granata e morì all'ospedale di Brisighella[1]».
Il Dott. Gualdrini
Oltre a Francesco Dari, ricordato con una lapide affissa nell’ospedale di Faenza[1], vi fu un’altra figura che si distinse nel momento di maggiore violenza della battaglia, il dott. Gualdrini. Ancora Frontali racconta:
«Quel dottore dalla barba nera e dal camice strappato e consumato che per due mesi non riuscì nemmeno a togliersi gli stivali, rimase solo per sua libera scelta con alcuni infermieri e un centinaio di vecchi e ammalati che non gliela avevano fatta a fuggire come gli altri.
L'ospedale è semidistrutto e i tedeschi lo tengono sotto il tiro diretto delle Spandau e dei cannoni. Deve fare un po' di tutto, il chirurgo, il cuoco, l'infermiere, a volte anche il necroforo.
I neozelandesi vorrebbero portar via agli ammalati con le autoambulanze ma non hanno il coraggio di avventurarsi allo scoperto e stanno al sicuro dietro la chiesa di Castel Raniero
[...].[Il racconto prosegue con il racconto di Domenico Cornacchia, detto Minghinì:] Pioveva, fango e buio pesto, saranno state le 20, solo la collina era illuminata dalle cellule fotoelettriche, il fronte stranamente taceva. Arrivati alla chiesa i soldati ci offrono una sigaretta e una tazza di the, poi ci danno le barelle. Ci incamminiamo cercando di non fare il minimo rumore, arrivati all'ospizio, mi infilo nella prima finestra che trovo, salto giù, vedo venirmi incontro una lampadina e una barba nera: Gualdrini! Due parole di saluto in dialetto e ci mettiamo subito al lavoro.
Il primo viaggio va bene ma il secondo e il terzo siamo sotto le granate, i tedeschi ci hanno sentito. Arriviamo a portar via i più gravi, gli altri resteranno e saranno portati via un'altra volta. Il giorno dopo seppelliamo i morti che si erano andati accumulando negli ultimi 15 giorni, una trentina. Scaviamo due fosse comuni ai lati della strada, per ognuno Gualdrini ha messo un foglio di riconoscimento.
Minghì non ebbe il coraggio di andarsene, rimase col dottor Gualdrini circa un mese. Si arrangiano come potevano per dare da mangiare agli ammalati: un giorno presero due tacchine, ma non sapevano come fare a tirare loro il collo.
Il bello fu quando, scendendo verso Celle, all’Argazena, trovarono un maiale morto in un campo, immerso nel fango, con la pazza verdastra ma con il dorso che sembrava buono. Lo tagliarono a metà e con una barella se lo portarono all'ospedale. Con l'aiuto di Cinì Montalbini gli fecero la festa, bistecche coppa di testa, mangiarmi un po' tutti, sani e malati[2]».
In occasione della morte del dottor Gualdrini venne edito un piccolo volumetto contenente alcuni documenti. Vale la pena riportare la testimonianza di BV Butcher FR del 5° Corpo della Croce Rossa Britannica:
«È mio desiderio portare a Vostra conoscenza l’eccellente lavoro compiuto dal Dott. GUALDRINI ROBERTO, mentre espletava il suo servizio nella Sede temporanea dell’Ospedale Civile, allora funzionante all’Ospizio dei Bambini a Castel Raniero.
Questa località restò sotto il fuoco per qualche tempo e fu anche usata dai tedeschi come posto di fuoco per mitragliatrici, mentre i pazienti si trovavano nell’Ospedale.
Le condizioni che io colà riscontrai il 19 dicembre 1945 [sic: 1944] erano indescrivibili, essendo il fabbricato quasi interamente distrutto dal fuoco dei proiettili, mentre tutto il materiale ospedaliero era mescolato ai detriti. Il pianterreno era zeppo di malati, di feriti e anche di rifugiati: c’erano indubbiamente stati almeno cento pazienti e i casi più gravi erano stati trasferiti ad altri Ospedali.
Durante tutto questo pericoloso e terribile periodo, il dott. Gualdrini era rimasto al suo posto ed il suo fisico mostrava i segni dell’esaurimento e della tensione. Saranno facilmente trovati testimoni per provare quanto sia stato estremamente pericoloso il periodo attraversato da questo Ospedale immediatamente prima dell’occupazione di Faenza da parte delle truppe Alleate.
Io considero che la dedizione al dovere mostrata dal Dott. Gualdrini abbia tenute alte le migliori tradizioni delle Medicina e sia degno di un riconoscimento ufficiale[3]».
Momenti di terrore. Il racconto di Suor Ildegarde
Frontali raccoglie un’ulteriore testimonianza sulla vita nell’Ospedale di Castel Raniero, quella di Suor Ildegarde:
«Visite di buoni Samaritani che raccoglievano i feriti e li trasportavano da noi: alcuni senza gambe, altri senza un braccio, chi con mezza faccia, chi già morto. Molte volte abbiamo visto venire su da Celle l'avvocato Gualdrini, allora segretario delle opere Pie, con un carro agricolo carico di feriti. Quante volte si è rimboccato le maniche improvvisandosi anche necroforo!
Visite di Fratelli in guerra fra loro: partigiani e Brigate nere in cerca di vendette che venivano consumate immediatamente ( l'episodio al quale probabilmente si riferisce Suor Ildegarde, è quello di Alvaro Casamurati, brigatista nero ferito il 19 settembre nell'eccidio di Saladino; ricoverato a Castel Raniero fu notte tempo prelevato dai Partigiani e subito eliminato; il suo corpo sarà ritrovato sotterrato in quel di San Cristoforo a distanza di un anno).
Erano momenti di terrore: le suore e i medici cercavano di nascondere i ricoverati in pericolo non facendogli risultare nel libro delle entrate e delle uscite. in tal modo molti giovani furono salvati per merito del professor Civalleri.
Una volta il professor Lesi fu minacciato, gli puntarono addosso i mitra perché volevano che dicesse dove era nascosto un ricoverato; ma lui con l'impotenza della sua persona e la bonarietà del suo dialetto, riuscire a smontare la rabbia e la ferocia e tutto si risolse nel migliore dei modi.
Infine, dal novembre al dicembre, ininterrottamente visite di bombe e granate che gradualmente sventrarono l'edificio facendo crollare gran parte del tetto e del secondo piano dove era la chirurgia.
Eravamo circa 300 persone E tutte si rifugiano nello scantinato, che aveva le finestre a fior di terra protette da materassi che erano come il burro contro le schegge. Lo chiamammo l’Alcazar per via dell' estrema confusione; ammonticchiati, stretti gli uni agli altri, fitti come le mosche: li si dormiva, si mangiava, si nasceva, si moriva, sia altercava e si rideva, tutto insieme. Alcune donne partorirono sul tavolo della cucina.
Ricordo quando nacque Luisa, la secondogenita del geometra Bucci, il giorno di Santa Caterina. Ricordo pure quando arrivarono due grosse granate tedesche che, per fortuna, non esplosero: una di esse si adagiò sul letto del farmacista dott Paoli, l'altra, entrando dal tetto, si posò davanti alla sala operatoria.
La situazione, poi, si aggravò sempre di più. In novembre niente più luce elettrica e petrolio e neppure acqua corrente, che ci arrivava dal posto del pozzo sottostante tramite un motorino a scoppio.
Finito il carburo dell'acetilene, facciamo dei lumini con la cimosa delle garze e il sego delle mucche che uccidevamo, ma anche questo finì, sicché di notte ci trovammo al buio più completo.
Avevamo rimasto del pane biscottato che scricchiolava sotto i denti perché impregnato di polvere e calcinacci e, per fortuna, molta farina e un po' di vino. Finché durò il vino, con la farina facciamo le piadine che avevano un effetto esilarante e antidepressivo. Ma poi anche il vino finì e dovemmo bere l'acqua della vascona accanto alla casa, che era verdastra, sporca e inquinata.
Di fame non si muore, ma di sete si può morire. Toccava ai più coraggiosi strisciare fuori per prendere dei secchi, in genere era sempre il dottor Gualdrini, che aveva più coraggio di tutti.
I tedeschi, appostati nelle case vicine, di giorno sparavano su tutto quello che si muoveva e di notte al minimo rumore. Fra tanti stenti e angosce, non badavamo agli animaletti che ci scambiavamo allegramente, pidocchi e pulci in comunione continua.
Non se ne poteva più.
Chi scappa verso Celle, chi in cerca di un rifugio meno esposto, chi in preda al terrore si avventurava fuori senza sapere dove andare. La sera del 7 dicembre venne il vecchio parroco di Castel Raniero, Don Aldo Cimatti, per dare a tutti l’assoluzione; si era sparsa la voce che i tedeschi, prima di ritirarsi, volevano radere al suolo l'ospizio, tutto kaputt. Invece se ne andarono senza farci alcun male.
Arrivarono finalmente i nostri liberatori, i neozelandesi; ci sembrava di sognare e che tutto fosse finalmente finito. Ma non fu così. I tedeschi dalle case vicine e da Celle continuarono a tempestarci di granate di grosso calibro. Arrivano anche le truppe di colore, gli indiani, assatanati per le donne, cercavano e volevano le donne a tutti i costi.
Noi suore eravamo molto giovani, io avevo vent'anni, la più vecchia ne aveva 37,l’unica anziana era la madre, Suor Salesia.
Fu il Dottor Roberto Gualdrini che disse a Suor Salesia: “Metta in salvo le sue sorelle, mi prendo io la responsabilità di tutto, rimango qui”. Così fu.
La notte del 12 dicembre fu tremenda. Una pioggia continua di granate tedesche sparate da un terribile mortaio lanciarazzi (nebelwerfer).
[...]
Da un momento all'altro ci aspettavamo che tutto ci crollasse addosso. Si decise di scappare l'indomani. La mattina del 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, un mercoledì, saltammo giù da una finestra alta circa due metri; per fortuna Tugnì ci aveva messo un materasso per attutire l'impatto. Saltò anche la nostra madre che si fece male ad un piede. Subito ci seguirono in massa gli sfollati e gli ammalati che potevano camminare; una fiumana di gente si precipitò giù dalla discesa di Errano. Il fango arrivava a metà gamba, cadendo e scivolando attraversammo campi minati senza accorgercene.
A piedi scalzi con una coperta in spalla, sporche, esauste, stordite dal bagliore della luce, giungemmo a gruppetti ad Errano. Lì sostammo tutta la notte in alcune case accoglienti.
Ai soldati chiedemmo un po' da mangiare ma non ce lo vollero dare, anzi lo buttarono via e lo pestarono. Forse erano ordini superiori!
La mattina del 14 ci incamminammo tutti verso Brisighella fra carri armati, camion e cannoni, muli e soldati, sempre col fango a mezza gamba; attraversammo il fiume varie volte, alla fine arrivano all'ospedale dove chiedemmo di essere ricevute anche per avere notizie della nostra Madre Superiora che nella fuga avevamo perso di vista. Ma una donna ci chiuse l’uscio in faccia e se ne andò via senza rispondere. L'ospedale era strapieno.
[...] Due giorni dopo, due di noi ripartirono per Castel Raniero per andare in aiuto del dottor Gualdrini. Un capitano inglese, molto comprensivo e paterno, ci fece accompagnare da una pattuglia militare. Ancora quel capitano il 10 gennaio provvide a far trasportare tutte le altre all'ospedale di Faenza, dove iniziò l'opera della ricostruzione ed ebbe termine la nostra odissea[1]».
Ricerche a cura di Albergi Filippo, Folli Andrea, Ghetti Lorenzo, Gieri Lorenzo, Pezzi Andrea e Piazza Anna.
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[1] Giovanni Collina Graziani, Faenza nel baratro. 8 settembre 1943 - 29 giugno 1945, Tipografia Faentina, Faenza 1989, in un appunto datato 4 luglio 1944, p. 44
[2]Giovanni Collina Graziani, Faenza nel baratro. 8 settembre 1943 - 29 giugno 1945, Tipografia Faentina, Faenza 1989, in un appunto datato 22 novembre 1944, p. 58
[3]Giovanni Collina Graziani, Faenza nel baratro. 8 settembre 1943 - 29 giugno 1945, Tipografia Faentina, Faenza 1989, in un appunto datato 5 dicembre 1944, p. 59
[4]Ibid.
[5]Giovanni Collina Graziani, Faenza nel baratro. 8 settembre 1943 - 29 giugno 1945, Tipografia Faentina, Faenza 1989, in un appunto datato 7 dicembre 1944, pp. 59-60
[6]Giovanni Collina Graziani, Faenza nel baratro. 8 settembre 1943 - 29 giugno 1945, Tipografia Faentina, Faenza 1989, in un appunto datato 13 dicembre 1944, p. 60
[7]Michelina Pasini, Il Diario di Michelina Pasini. Brisighella 1944 - 1948, a cura di Marco Serena e Elena Stefanelli, Istituto storico della Resistenza e dell'età contemporanea in Ravenna e provincia, Alfonsine 2020, p . 83.
[8]Arturo Frontali, Lo sfollamento dell’Ospedale Civile nella Colonia Montana di Castel Raniero dal maggio al dicembre ‘44 in Giuliano Bettoli, Giovanni Bolognesi, Claudio Bonetti et al., Faenza nella guerra dopo cinquant’anni di pace, Tipografia faentina, Faenza 1994, pp.103-104.
[9]Le nostre ricerche su Francesco Dari non hanno dato buon esito, le uniche informazioni reperite sono in Gaspare Mirandola (a cura di), Topografia della Memoria. Comprensorio faentino, Bacchilega Editore Imola, 2011, p. 34
[10]Arturo Frontali, Lo sfollamento dell’Ospedale Civile nella Colonia Montana di Castel Raniero dal maggio al dicembre ‘44 in Giuliano Bettoli, Giovanni Bolognesi, Claudio Bonetti et al., Faenza nella guerra dopo cinquant’anni di pace, Tipografia faentina, Faenza 1994, pp.106-107.
[11]Documento datato 3 febbraio 1945, scritto da BV Butcher FR del 5° Corpo della Croce Rossa Britannica indirizzato a a Sig. Magg Pallotti FP Governatore Militare Alleato CAO AMG – Faenza, pubblicato in Ricordo del dott. Roberto Gualdrini, medico cardiologo igienista 1914-1959, F.lli Lega, Faenza 1961, pp. 17-18.
[12]Arturo Frontali, Lo sfollamento dell’Ospedale Civile nella Colonia Montana di Castel Raniero dal maggio al dicembre ‘44 in Giuliano Bettoli, Giovanni Bolognesi, Claudio Bonetti et al., Faenza nella guerra dopo cinquant’anni di pace, Tipografia faentina, Faenza 1994, pp. 100-103