Hunter's bridge

Faenza / Ripercorriamo le tappe chiave della seconda guerra mondiale a Faenza.

Hunter's bridge

Nei primi di dicembre del 1944 l'8ª armata alleata avviò il piano per la liberazione di Faenza dall’occupazione tedesca.

Dopo numerose esplorazioni aeree, il comando alleato scelse come punto di attraversamento il Lamone, la zona nei pressi di Quartolo, perché in questa zona il  fiume era più stretto e con gli argini più bassi.

Trovato il miglior punto dove attraversare il fiume, bisognava far arrivare i materiali per costruire il ponte e, una volta finito, permettere l'attraversamento dei mezzi corazzati.

La costruzione del ponte

Il ponte sul Lamone venne costruito tra la notte del 10 e 11 dicembre dal 2°plotone (comandato dal tenente Hunter, da cui il nome del ponte) sotto la copertura di una cortina fumogena, poiché il nemico era a solo a 3km di distanza da loro. Sin da subito varie divisioni alleate iniziarono ad attraversarlo.

Questo ponte avrebbe dovuto raggiungere la classe 24 (cioè adatto all’utilizzo per mezzi fino a 24 tonnellate), sufficiente per far passare qualunque mezzo, eccetto i carri armati.

I genieri, appena terminata la costruzione del ponte, quando ancora l’area era avvolta nella cortina fumogena, furono informati che, da quel ponte, avrebbero dovuto transitare anche i carri armati, perché era l’unico ponte pesante sul Lamone[1]. Il lavoro andava modificato per trasformare il ponte in un classe 36.

Vennero montati i pannelli mancanti, non consegnati dall’esercito, utilizzando quelli presenti in una banchina che si trovava dall’altra parte della riva. Quando il lavoro era quasi stato completato, arrivarono i carri Sherman della 4 brigata neozelandese. I genieri, indecisi se far attendere la fine dei lavori o permettere immediatamente il passaggio dei carri, decisero di far passare i carri alla minima velocità possibile.

Mentre i carri armati attraversavano il ponte, uno per volta, c’era la preoccupazione che questo cedesse. L’ ultimo carro armato della fila fu un Churchill, dotato di lanciafiamme,pesante più di 60 tonnellate. I genieri si rifiutarono di farlo passare e i “Tommies” iniziarono a protestare.

… e della strada.

Quando la costruzione del ponte fu completata, i genieri si occuparono di costruire la strada per raggiungerlo. Per questo lavoro furono costretti ad utilizzare di tutto (tronchi, macerie, mobili. Il tenente Moss la descrisse con queste parole:

«Allo stesso modo, gli oggetti, abbandonati nelle case utilizzate per consolidare le strade, vengono sparsi sulle stesse, e quindi ci sono dei pezzi di strada che sono mosaici composti da ombrelli, frammenti di stoviglie, fotografie, la vecchia padella per friggere, un coniglio morto, o un pollo e così via[1]».).

 

Questa la descrizione della strada nella storia ufficiale del 23° battaglione:

«Some drivers who had known the Terelle “Terror Track” declared they preferred it to the one they now had to use to supply 5 Brigade across the Lamone west of Faenza. Whereas at Terelle they could and did move at full speed, this was quite impossible in the mud. Thus, it often took the jeep train with rations twelve hours to get from Forli to 5 Brigade Headquarters. Harassing fire was a trouble but was nothing compared to the condition of the roads[2]»


Dopo l’attacco coi carri armati, i neozelandesi videro passare diversi prigionieri, tra cui  un ufficiale del Genio tedesco. Quest’ultimo ammise che nessuno si aspettava un attacco effettuato coi carri armati da quella parte di Faenza[3].

 

Cavolfiori minati.Il racconto del tenente Moss

Un ultima testimonianza su questa zona la ci viene offerta dal diario del tenente Moss:

«Abitavamo per un periodo in una fattoria italiana,e dopo costruimmo un altro ponte sulla strada per Celle prima di andare via. Sull’altra riva del fiume, dove il ponte si collegava al sentiero, c’era un grande terreno coltivato a cavolfiori. Noi circondammo la zona con la fettuccia bianca utilizzata per delimitare i varchi nei campi minati e mettendo dei cartelli [con scritto] "mine" per tenere lontani gli altri soldati, ed ogni sera, appena si faceva buio, andavamo a raccogliere tutti i cavoli che ci servivano[1]».

 

Ricerche a cura di Fabio Balzani, Mario Bassi, Dylan Nacca e Luca Santucci.

 

 

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[1] Enzo Casadio e Massimo Valli, Il ponte della cartiera in Gino Bertoni, Giuliano Bettoli, Enzo Casadio et al., 1943 – 1946 Faenza dall’armistizio alla Repubblica, Stefano Casanova Editore, Faenza 1996, p. 63.

[2]Enzo Casadio e Massimo Valli, Il ponte della cartiera in Gino Bertoni, Giuliano Bettoli, Enzo Casadio et al., 1943 – 1946 Faenza dall’armistizio alla Repubblica, Stefano Casanova Editore, Faenza 1996, p. 68.

[3]Il testo della citazione è reperibile qui: http://nzetc.victoria.ac.nz/tm/scholarly/tei-WH2Engr-c22.html#name-018642-mention Joseph F. Cody, New Zealand Engineers, Middle East, Wellington 1961, p. 657. La traduzione del testo si può leggere in Enzo Casadio e Massimo Valli, Il ponte della cartiera in Gino Bertoni, Giuliano Bettoli, Enzo Casadio et al., 1943 – 1946 Faenza dall’armistizio alla Repubblica, Stefano Casanova Editore, Faenza 1996, pp. 66-67: «Alcuni autisti che hanno conosciuto a Terelle (vicino a Cassino) la cosiddetta “Pista del terrore” dissero che la preferivano a quella che dovevano usare ore per rifornire la V Brigata oltre il Lamone a ovest di Faenza. A Tarelle essi potevano andare alla massima velocità, ma qui era impossibile a causa del fango. I convogli di jeep con i rifornimenti spesso impiegavano anche 12 ore per andare da Forlì al comando della V Brigata. Il fuoco continuo era fastidioso, ma era niente in confronto alle condizioni della strada».

[4]L’intera ricostruzione è riassunta dal saggio di  Enzo Casadio e Massimo Valli, Il ponte della cartiera in Gino Bertoni, Giuliano Bettoli, Enzo Casadio et al., 1943 – 1946 Faenza dall’armistizio alla Repubblica, Stefano Casanova Editore, Faenza 1996.

[5]Enzo Casadio e Massimo Valli, Il ponte della cartiera in Gino Bertoni, Giuliano Bettoli, Enzo Casadio et al., 1943 – 1946 Faenza dall’armistizio alla Repubblica, Stefano Casanova Editore, Faenza 1996, p. 63.

 

 


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