Mesola vede nel 1943 l’arrivo delle truppe tedesche, che – consapevoli di un probabile sbarco degli Alleati nella zona tra Porto Garibaldi e Volano – individuano nella località la zona strategica per l’attraversamento del Po di Goro e imboccare la strada di Venezia: il delta del Po, le paludi, i canali artificiali della bonifica sono già uno sbarramento ottimo, naturale, contro l’esercito nemico.
A Mesola sono di stanza due battaglioni tedeschi. Le scuole comunali diventano una caserma, la sede operativa è installata al secondo piano del Castello estense, l’ex caserma dei Carabinieri è adibita a carcere, dove passano i sospettati e i partigiani arrestati prima del trasferimento, di norma, alle “fasanare” di Codigoro. Dall’edificio i prigionieri escono, scortati dai fascisti, per andare nel Castello dove vengono interrogati.
L’esercito tedesco si attiva subito per realizzare qui uno stralcio della linea difensiva tra Bologna e Comacchio (“linea Gengis Khan”): lo sbarramento più imponente è collocato proprio a Mesola, lungo la vecchia strada Romea, dove viene costruito il primo gruppo di bunker (fortini) lungo la barriera naturale del Canal Bianco e, poco più a nord, del Po di Goro. Altri fortini vengono costruiti nelle pinete di Motte del Fondo e Ribaldesa per bloccare il passaggio della Romea.
Il cambio di strategia da parte delle forze alleate rende inutile lo sbarramento, poiché la “linea Gengis Khan” rimane lontano dai combattimenti (il secondo sbarco degli Alleati è avvenuto ad Anzio).
Tra il 22 e il 23 aprile 1945, in un tremendo susseguirsi di avvenimenti, i tedeschi fuggono, cercando disperatamente di attraversare il Po con ogni mezzo, incalzati dall’avanzare degli Alleati. Molti abitanti di Mesola e di Bosco Mesola ricordano ancora il ripiegamento disordinato dei tedeschi, testimoniato dalle parole di Walter Feggi, il “comandante Pietro” protagonista dell’attività resistenziale nel Basso Ferrarese:
Il 23 aprile un componente del mio settore mi avvertì che nei pressi di Ponte Chiaviconi, fino alla zona attraversata dalla strada Romea, si stavano ammassando molti tedeschi armati in fuga...
ma bisogna fare attenzione alle retroguardie, ai cecchini che coprono freneticamente la ritirata.
A ridosso del fronte che avanzava con gli alleati che pressavano le retroguardie dell’Asse in rotta disperata, per ore e ore durante il giorno proseguì un mitragliamento continuo, esteso a tutti i territori attraversati dal basso corso del Po che frenava la ritirata tedesca. Sopra le campagne fra Ariano Ferrarese e Massenzatica, nugoli di aerei scendevano in picchiata a brevi intervalli con traiettorie incrociate per non dare tregua al nemico in fuga: cecchinavano i tedeschi lungo i fossi di scolo delle valli...
Walter Feggi nasce a Massenzatica il 27 giugno 1922. L’amore per il nonno Cherubino – che aveva ‘beneficiato’ dell’olio di ricino per diverse volte e di qualche sberlone di mano fascista – e il rispetto per il padre Servilio segnano fortemente la sua infanzia.
Di quel nonno, fedele al socialismo, che la nonna definiva “un ficcanaso che si era introdotto nella politica”, ricorda:
mi diceva sempre che “le proprie idee vanno mantenute, difese e rafforzate, non si deve mai odiare e si deve convivere con gli altri”... Ho sempre cercato di seguire il suo insegnamento, l’ho amato moltissimo... Debbo riconoscenza al nonno per quello che mi ha insegnato e per quello che ha rappresentato nella mia vita.
Del severo padre Servilio, che protegge il nonno iscrivendosi al Fascio e determinando così la fine di una persecuzione continua, ricorda:
... debbo riconoscenza a mio padre, e molta, soprattutto perché se nel periodo della Resistenza non mi hanno ammazzato, una delle ragioni, e credo sia una ragione forte, è stata quella che i fascisti non riuscivano a prendere mio padre, neanche con una taglia di centomila lire che gli avevano messo sulla testa, perché era accusato di aver dato aiuto ai partigiani...
Cherubino, che ha sempre lavorato per Enti Pubblici, in particolare per il Consorzio di Bonifica, rifiuta di iscriversi al partito e perde la possibilità di avere appalti; d’accordo con il figlio Servilio, decide di andare a governare l’azienda agricola che ha in affitto: anche la Casona del Moraro segnerà profondamente la vita di Walter, che vi si trasferirà con la sua famiglia il 4 ottobre 1943.
Un’infanzia vissuta tra Comacchio per le scuole di avviamento professionale, Porto Garibaldi dove vive e la Casona dove trascorre l’estate, il periodo più bello, ad aiutare il nonno con cui... avevo un rapporto bellissimo, eccezionale. Poi il lavoro precario all’agenzia di Porto Garibaldi della Banca Nazionale dell’Agricoltura, lo sport, il fidanzamento e il matrimonio a diciannove anni e mezzo con l’Angelina in attesa del primo figlio, la guerra che arriva nel giugno 1940... Servilio parte lasciando la famiglia nelle mani di Walter che fa la spola tra la Casona, Porto Garibaldi e l’ospedale militare dove viene due volte riformato, per poi essere assunto dal Consorzio Ittico, impiego lasciato per impedire la perdita della Casona.
Durante l’estate alla Casona il diciottenne Walter prende confidenza con le idee socialiste attraverso le chiacchierate con il nonno Cherubino e l’incontro con Alceste Ricciarelli, collega del padre Servilio, nella primavera del 1944. A seguito della disgregazione del movimento antifascista ferrarese dopo l’eccidio del Castello estense di Ferrara (15 novembre 1943), ferve l’attività per tentare di riorganizzarlo. Le conoscenze di Walter si allargano... Si parlava di libertà, del significato di democrazia e aprire il cervello a queste nuove cose, anche per me, cresciuto in una società fascista, era qualcosa di eccezionale. Dopo tanti colloqui con Ricciarelli arriva il momento di ampliare il gruppo e di portare gli esponenti del movimento resistenziale di Ferrara nel Basso Ferrarese. Gli incontri hanno luogo alla Casona, invitati da Walter – io gli ho detto di venire alla Casona ... L’ho fatto ingenuamente – senza rendersi conto di mettere in pericolo la famiglia, esponendola troppo per qualcosa che “non è più un gioco”, come gli spiega Arnoldo Azzi, che gli impone ‘Pietro’ come nome di battaglia. Nell’estate del 1944 qualcosa si muove e intanto nella Casona si organizza la Resistenza, si imposta l’organigramma della 35a Brigata “Bruno Rizzieri” – di cui Walter/Pietro diventerà comandante del secondo distaccamento, nonché capo del settore partigiano di Massenzatica-Monticelli – impegnandosi in un contesto politico molto delicato tra i settori predisposti nel Basso Ferrarese.
Due episodi del novembre 1944 compromettono le sorti del movimento: l’uccisione, sebbene l’intento fosse di disarmarli, di due appartenenti alla 24a Brigata Nera da parte di un gruppo di partigiani di Serravalle e l’attentato alla caserma della Guardia Nazionale Repubblicana di Berra. Tra equivoci, serrati confronti fra “interventisti” e “attendisti” (tra cui Feggi), appostamenti, esecuzioni e pesanti silenzi arriva anche per Walter il momento di cadere nelle mani dei nazifascisti: viene arrestato alla Casona nella notte del 14 dicembre 1944, dopo essere stato malmenato. Viene arrestato il nonno Cherubino (‘Lazzaro’), mentre Servilio (‘Fiore’) scampa alla retata. Durante le concitate fasi dell’arresto, Walter nasconde tra le fasce del figlio neonato la mappa dei fondali della Sacca di Goro, che arriverà nelle mani degli Alleati.
Condotto a Mesola, dopo giorni di interrogatori e di torture, Walter viene consegnato, insieme ad altri partigiani, alle Brigare Nere di Ugo Jannuzzi di stanza a Codigoro, dove arrivano il 22 dicembre. Le “fasanare” sono sovraffollate e il gruppetto è rinchiuso provvisoriamente in alcune stanze delle ex scuole elementari che affacciano sulla piazza. In una stanza del Comune viene interrogato più volte dal terribile “poliziotto” Carlo De Sanctis, tra raffiche di domande e scariche di legnate sulla schiena.
Cherubino viene trattenuto nel carcere di Codigoro dal 16 dicembre 1944 al 9 gennaio 1945 e rilasciato con la diffida di non svolgere più attività politica; Servilio rimane rintanato nella soffitta della casa dei nonni a Massenzatica (sede del Comando tedesco di zona), dalla quale uscirà il 23 aprile 1945, non senza essere tornato di nascosto alla Casona e aver liberato due partigiani là nascosti; la moglie Angelina Patrignani rischia molto nei suoi tentativi di far liberare il marito: esile nell’aspetto ma tanto forte da presidiare la piazza di Codigoro, arriva a sfidare il vice commissario De Sanctis:
Sono la moglie di Feggi. So che lei ha interrogato mio marito e lo ha picchiato: voglio sapere come è messo. Sappia che se lei lo fa ammazzare o ammazza mio marito io lo vendico!
L’ordine di scarcerazione di Walter viene firmato il 15 o il 16 aprile 1945. Nonostante l’opposizione del comandante del distaccamento delle Brigate Nere di Codigoro, il pretore Giovanni Zizak controfirma l’atto. Dopo due giorni lo prelevano dalla cella e lo portano nell’ufficio del pretore che, tutto soddisfatto, gli dice: “Ce l’abbiamo fatta, lei può andare a casa”. Non ci volevo credere...
Tra il 19 e il 21 aprile le celle del carcere di Codigoro si svuotano.
Libero, Walter riprende la sua attività a sostegno della Resistenza, torna alla Casona, riceve i complimenti degli Alleati per la precisione dei rilievi sui fondali della Sacca di Goro, passa l’inverno del 1945-46 a bonificare i terreni della Casona per renderli coltivabili... con l’animo rivolto ad una nuova vita.
Una vita terminata con l’estremo saluto nella chiesa di San Martino Vescovo di Codigoro il 19 gennaio 2013, con l’abbraccio commosso di tutta la Comunità e dei famigliari. Nel ricordo delle nipoti è il nonno buono, nell’omelia di don Lino Trabucchi un uomo giusto.
Il duca di Ferrara Alfonso II d’Este incarica tre grandi esperti per concretizzare l’ambizioso progetto del Castello di Mesola, realizzato tra il 1578 e il 1583: direttore dei lavori è Galasso Alghisi da Carpi, il disegno è di Giovan Battista Aleotti, sovrintendente alla costruzione è l’ingegnere idraulico e architetto Marc’Antonio Pasi.
Il Castello viene utilizzato dagli Este come residenza e punto di partenza per le battute di caccia nel vicino Bosco di Mesola. Compreso nei beni allodiali estensi, nel 1771 passa alla Casa d’Austria con la dote di Maria Beatrice Ricciarda d’Este, sposa di Ferdinando Carlo d’Asburgo-Lorena. Nel 1785 papa Pio VI acquista il tenimento dall’imperatore asburgico Giuseppe II. Dopo la bufera napoleonica, con la Restaurazione il sito torna, nel 1836, allo Stato della Chiesa, per poi passare, nel 1911, alla Società per la Bonifica dei Terreni Ferraresi. Ora è proprietà della Provincia di Ferrara.
Nei piani di Alfonso II, che tanto pensiero danno alla Serenissima, la tenuta di Mesola deve ripristinare, mediante il ramo di Po di Goro, il felice commercio dei tempi passati, compromesso dalla difficoltosa navigazione del Volano e del Po di Primaro. Nonostante gli Este neghino un intento politico, il nuovo snodo commerciale di Mesola deve indebolire il predominio di Venezia nei traffici fluviali verso l’interno.
Pochi anni dopo la devoluzione dello Stato estense al governo pontificio (1598), i veneziani mettono in opera il complesso programma del taglio del Po presso Porto Viro (1604), che porta all’insabbiamento del porto di Goro, escludendo Mesola dalle strade liquide mercantili.
La conformazione del territorio del delta del Po – con le paludi, i rami del grande fiume e gli ampi canali artificiali – è il presupposto per la realizzazione, da parte dei tedeschi arrivati in zona nel 1943, di una parte della linea difensiva Bologna - Comacchio, detta “linea Gengis Khan”. La distruzione dei ponti e la costruzione di postazioni fortificate avrebbero fatto il resto, bloccando ogni tentativo di sfondamento. A partire dall’inverno del 1943 vengono costruite difese a Codigoro, muri di sbarramento a mare nella zona degli attuali Lidi di Comacchio, mentre lo sbarramento più imponente è collocato a Mesola, lungo la vecchia strada Romea.
Nella primavera del 1944 la costruzione dei “fortini” (bunker) è terminata, grazie all’incessante impegno di manodopera locale, una cinquantina di giovani attorno ai vent’anni che lavorano in qualsiasi condizione di tempo, per un minimo di dodici al giorno, come racconta un testimone di Mesola, reclutato mediante l’ufficio di collocamento dai tedeschi, che costantemente monitorano lo stato dell’opera. Il badile e la carriola erano i nostri strumenti di lavoro, – prosegue – si iniziava dagli scavi per passare in seguito alla posa del calcestruzzo e alla creazione dell’armatura in ferro... Assunti dalla ditta Todt di Monaco di Baviera (impresa per la costruzione di strade convertita in struttura paramilitare specializzata in bunker) con lo stipendio mensile di 500 lire, i giovani non hanno molta scelta, come racconta un altro testimone: o ti impiegavi nei cantieri della Todt o finivi a lavorare in Germania o peggio al fronte in prima linea.
Il primo gruppo di fortini viene costruito a Mesola, lungo la barriera naturale data dal Canal Bianco (difeso anche da postazioni armate all’aperto) e, poco più a nord, dal ramo del Po di Goro; segue la costruzione di quelli di Motte del Fondo e Ribaldesa per bloccare il passaggio da sud a nord della strada Romea: in tutto 25, dei quali 20 ancora visibili, mentre 5 sono stati atterrati per la creazione della zona industriale. Altri fortini sono costruiti a Rivà, sulla sponda veneta. Da notare che le postazioni difensive avrebbero dovute essere costruite sotto terra, rendendole mimetiche, ma di fatto ciò era stato impedito dalla natura del terreno.
Nel frattempo il contesto strategico cambia, contro le previsioni: il secondo sbarco avviene ad Anzio e gli Alleati risalgono via terra la Penisola fino a sfondare le postazioni della Linea Gotica sull’Appennino nell’estate del 1945. I fortini non sono stati armati, anche perché le armi servono dove c’è battaglia sulle diverse linee del fronte e la linea difensiva è lontana dai combattimenti. La veloce avanzata delle forze alleate fa sì che i tedeschi abbandonino Mesola, non senza aver fatto saltare i ponti sul Canal Bianco.
Finita la guerra, i fortini diventano la casa di famiglie che a causa degli eventi bellici hanno perso tutto, conservando questa funzione fino agli anni Sessanta del Novecento.
La “Macchinina” è un microtoponimo, il nome di una località tristemente famosa per un eccidio compiuto dai fascisti, affidato materialmente al capitano della Guardia Nazionale Repubblicana, che si avvale di una squadra di famigerati “tupìn”. Nel pieno periodo della Repubblica Sociale Italiana, il 27 marzo 1944, con un’azione contemporanea vengono prelevati dalle loro abitazioni tre uomini a Ferrara – Narciso Visser, Ernesto Alberghini, Augusto Mazzoni, compagni di lavoro alla Società Elettrica Padana – e quattro a Jolanda di Savoia – Enrico Luppi, Luigi Cavicchini, l’ingegnere Cesare Nurizzo, impiegati nello zuccherificio, e il parroco del paese don Pietro Rizzo –. È una rappresaglia per l’uccisione, per mano di partigiani rimasti ignoti, di due fascisti della 2a Compagnia della Guardia Nazionale Repubblicana di Portomaggiore, in servizio a Longastrino.
Le vittime della retata si incontrano a Mesola, dove prendono la strada di Goro a bordo di un camioncino. Poi, a piedi, fino alla “Macchinina”, poco lontano dall’abitato di Gorino, dove si compie la spietata esecuzione, alla quale scampano per miracolo Narciso Visser e Cesare Nurizzo.
All’alba del giorno dopo l’arresto, sulla riva del Po, ai due militari incaricati dell’esecuzione viene ordinato di sparare ai condannati, ma hanno un attimo di incertezza... rifiutano di fare fuoco, nonostante le sollecitazioni del comandante e la voce stessa di un morituro, solenne e tragica, quella di Cesare Nurizzo: “non è questo il modo di uccidere degli onesti lavoratori, senza processo, senza condanna... Noi non siamo dei comuni delinquenti”. Il comandante estrae l’arma e gli spara: mancato. Intanto Luppi scappa affrontando il fiume con energiche bracciate attraverso un canale, ma viene fermato da una raffica rabbiosa di mitra. Nurizzo si getta a terra mentre il comandante inizia a sparare ai condannati, che cadono uno ad uno. Quando Mazzoni viene colpito, Visser, che gli è a braccetto, si lascia scivolare a terra anticipando la caduta terminata sotto il corpo esanime di Mazzoni. Don Rizzo, rantolante, riesce a dire le sue ultime parole: “Io non sono ancora finito”, spezzate da una scarica di mitra.
Si sentono gli aguzzini che si muovono, parlano tra loro incalzati dagli ordini del comandante: “Buttateli giù dal ponte ... presto, presto che fa l’alba ... buttateli al largo... al largo che non li vedano”. I fari della macchina cercano chi è scappato. Rimasi in acqua fino all’alba – racconta Narciso Visser –. Salito ... venne un vecchio il quale accortosi dei morti non azzardò a parlare e si limitò a indicarmi una casa; entrai ... vi trovai l’ing. Nurizzo. Ci scambiammo parole facili a intuirsi. ... Decidemmo di partire subito per tema di ricerche. Salimmo su un biroccio, poi fermato dai militi. Io continuai oltrepassando Goro ed arrivai ad Ariano Polesine. A Ferrara venni solo dopo la Liberazione.
Le pinete di Motte del Fondo e della Ribaldesa si trovano a sud di Mesola, divise dalla strada statale 309 Romea. Il complesso dunoso detto Motte del Fondo si forma nel X secolo d.C., corrispondente all’antica linea di costa che separa il mare dalla ex Valle Vallona, oggi bonificata e coltivata. Le formazioni boschive vengono impiantate dalla Guardia forestale tra il 1936 e il 1938.
I dossoni nord e sud, di formazione più recente, sorgono su due paleodune a est dell’abitato di Mesola: sono il residuo della parte centrale della grande tenuta estense. La Via Biverare corrisponde all’antico stradone della Giovecca, che collegava il Castello di Mesola alla parte opposta della tenuta, della quale il bosco di Santa Giustina – proprietà della Regione Emilia-Romagna e gestito dal Corpo Forestale dello Stato – è il residuo della parte orientale.
I “tupìn” sono definiti “delinquenti” dagli stessi fascisti; «l’etimologia del nome non è ben chiara, forse, il termine dialettale corrispondente a topi che si insinuano, che rodono, che colpiscono a tradimento, con destrezza .... Si trattava comunque di un corpo di guardie scelte alle quali venivano dati in dotazione un mitra, un tascapane con due bombe ed alcuni buoni da cento lire. Tutti giovani, ragazzi tra i diciassette e i diciotto anni, sembra fossero circa 238...
(La Gazzetta del Po, 30 luglio 1945)
... avevano la loro sede in città, ma si irradiavano in tutta la provincia in gruppi di aderenti e con camion, e guai a chi non salutava il gagliardetto al loro passaggio, i tupìn scendevano d’impeto, giù botte da orbi quando non sono colpi di mitra.
(La Gazzetta del Po, 13 agosto 1945)